I Buyback aziendali non sono ciò che sembrano (I Parte)

- 04/04/2016
Quando ci si riferisce alla struttura di un’azienda, per ingegneria finanziaria si intende l’impiego aggressivo di diverse tecniche, allo scopo di incrementare il valore per gli azionisti agendo sul bilancio. Forse negli ultimi anni nessuna tecnica ha ricevuto più attenzione del riacquisto di azioni proprie, o buyback. Non passa giorno senza che la CNBC o altri canali finanziari riportino la notizia di una compagnia che ha lanciato o riproposto un programma di buyback, e si discute costantemente se questa pratica rappresenti o meno un impiego accorto delle risorse finanziarie dell’azienda.
In questo resoconto cercheremo di fare luce su questo argomento esaminando cosa ha da dire il mercato a proposito delle compagnie che si cimentano nel buyback. Si tratta di una questione oggi di vitale rilevanza, da quando i tassi di interesse negli Stati Uniti sono stati azzerati, 87 mesi fa. Durante questo arco di tempo le società hanno ammassato volumi record di debito a condizioni storicamente allettanti, al contempo risultando voraci acquirenti delle loro stesse azioni. Non a caso le società più attive su questo fronte risultano aver nettamente sovraperformato il resto del mercato. Ma ciò non è più vero negli ultimi mesi, come vedremo fra breve.
Nell’epoca in cui sembra esserci un indice per ogni attività finanziaria disponibile, purché vi sia un prezzo che la rappresenti, non mancano indici che sintetizzano l’andamento delle compagnie dedite al buyback. Ci sono due indici, ma poiché le performance sono del tutto similari, ci occuperemo soltanto di uno di essi: lo S&P 500 Buyback Total Return Index (SPBUYUT). L’indice è retro-calcolato dal 1994, sebbene sia disponibile soltanto da poco tempo: infatti i volumi sono proposti soltanto dal 2013. L’indice è equiponderato, e ribilanciato ogni tre mesi. Copre le cento compagnie che negli ultimi quattro trimestri sono state più attive di tutte nel riacquisto di azioni proprie, in rapporto alla rispettiva capitalizzazione di borsa. L’indice è confrontato con lo S&P Total Return, che al pari dell’indice in questione include il flusso cedolare.
Sebbene i ritorni sugli investimenti finanziari siano stati gonfiati dall’esperimento storico del QE e della ZIRP, i numeri rivelano che dal minimo di marzo 2009 lo S&P TR ha corrisposto una performance del 252%; lo S&P BB è decollato nel frattempo del 374%. Se ci soffermassimo sul breve periodo, invece, avremmo tutt’altra immagine. Da marzo 2009 disponiamo di 29 trimestri; di questi, lo S&P BB ha sottoperformato il “500” in cinque occasioni: due nel 2012, e tre negli ultimi trimestri conclusi. Negli ultimi quattro trimestri la sottoperformance complessiva ha superato il 7%: il mercato sta mettendo a dura prova le società che si sono rivelate ingorge compratrici delle proprie azioni.