Il divorzio fra Federal Reserve e Wall Street

- 28/11/2016
Nel mondo di Trumpolandia antichi capisaldi vengono meno, ed emergono nuove correlazioni a cui sarà opportuno abituarsi con molta sollecitudine. Da quasi otto anni eravamo abituati a collegare le sorti della borsa americana all’allargamento della borsa di Zio Sam; che nel tempo ha assunto le sembianze di Ben Bernanke, e poi di Janet Yellen. Più si dilatava il bilancio della Federal Reserve, e più ne giovava il mercato azionario.
Il popolare sito Investopedia definisce base monetaria “l'ammontare complessivo di moneta o in circolazione presso il pubblico, o disponibile sotto forma di depositi delle banche di credito ordinario presso l'istituto di emissione”.
Non c’è dubbio che questa definizione rispecchi abbastanza da vicino l’evoluzione cumulata del programma di acquisti di titoli, posto in essere dalla Fed dal 2008 in poi.
Uno sguardo neanche troppo attento coglie immediatamente la somiglianza fra l’andamento della base monetaria, e quello dello S&P500 (in blue, scala di sinistra, nel grafico qui in basso):
La correlazione è ben esplicitata dalla figura in basso, che su un diagramma cartesiano mostra i punti corrispondenti a tutte le coppie di valori [bilancio complessivo Fed – quotazione S&P500] registrate da marzo 2009 in avanti: al crescere del primo dato è cresciuto, di pari passo, anche il secondo.
Naturalmente la relazione non è così stringente. Il mercato si è preso in questi anni la licenza di oscillare attorno al percorso definito da questa correlazione, muovendosi fra estremi però ben identificabili.
In invarianza di bilancio centrale della banca centrale americana, sulla base di questa esperienza storica, era lecito aspettarsi uno S&P in trading range fra un minimo di 1825 e un massimo di 2175 punti.
La soglia minima è stata saggiata all’inizio dell’anno; e la soglia massima?...
Sorpresa! Wall Street ha smesso di seguire le prescrizioni di questa correlazione che dalla fine del 2008 è risultata magistrale. Con un poderoso scatto, a pochi giorni dall’elezione del presidente Trump lo S&P si è spinto a nuovi massimi storici, superando la gabbia teorica.
Si potrebbe sospettare trattarsi di un paio di rilevazioni anomale; outlier, in gergo statistico. Ma la spiegazione non regge. Perché pur potendosi ammettere un qualche margine di tolleranza, a quest’ora lo S&P avrebbe dovuto quotare meno di 1800 punti, non più di 2200 punti.
Intendiamoci: il divorzio fra Federal Reserve e Wall Street non è fenomeno recente. Trump c’entra poco; il trumpismo, molto: lo sganciamento, la decorrelazione è in essere da marzo, quando l’avversione alla globalizzazione, il populismo e la critica allo stimolo monetario hanno favorito l’ascesa di leader del calibro di Jeremy Corbyn, Bernie Sanders e appunto Donald Trump.
L’epoca dell’interventismo delle banche centrali sui mercati finanziari volge al termine. Non siamo al “QE for the People”, invocato da alcuni; ma di sicuro le politiche economiche si spostano ora dal lato monetario a quello fiscale; dall’intransigenza nella gestione dei conti pubblici al ripudio dell’austerità ad ogni costo.
E Wall Street nel frattempo vola a nuovi massimi storici. Dannati capitalisti: cadono sempre in piedi!...