Jimmy Carter aveva ragione (I Parte)

- 10/10/2016
Nel 1979, in un discorso alla nazione, Jimmy Carter segnalò alla nazione una crisi di fiducia che attanagliava gli Stati Uniti. All’epoca gli USA soffrivano per la “stagflazione”: una tossica combinazione di inflazione e recessione. L’ex presidente ci aveva visto giusto se è vero che, 37 anni dopo, la nazione soffre di una grave malattia, dal momento che ha sperimentato la ripresa post-bellica più fiacca dopo la Grande Recessione del 2008-2009. Sebbene la nazione non soffra per l’inflazione, almeno quella ufficiale misurata dal governo; il fatto che il PIL non abbia mai prodotto slanci in tutti questi anni, con un’espansione annuale media del 2%, ci avvicina alla fine degli anni Settanta.
È una questione su cui ci siamo soffermati diverse volte, negli ultimi anni: la crescita stagnante ha a che fare con il debito federale eccessivo, e con un indebitamento impressionante da parte di famiglie – inclusi gli studenti! – e imprese. La Federal Reserve ha affrontato il problema espandendo il proprio bilancio, comprando titoli governativi ed emessi dalle agenzie federali, e manipolando i tassi di interesse, allontanandoli dal livello di equilibrio stabilito dalle forze di mercato. Sebbene queste misure fossero orientate a stimolare la crescita, ciò che in ultima analisi hanno prodotto è stata la lievitazione dei prezzi delle attività finanziarie a livelli drammaticamente elevati: sia storicamente parlando, sia con riferimento alle prospettive future di crescita.
Dal loro canto, le banche centrali di Giappone ed Europa si sono spinte anche oltre, inaugurando una stagione di tassi di interesse negativi, oltre a comprare titoli del debito sovrano e (Giappone) addirittura azioni. Anche qui si registra un malessere, sotto forma di crescita lenta e insuccesso nello stimolare le rispettive economie. L’unico contesto dove queste misure si sono rivelate efficaci è stato l’incoraggiamento del tasso di risparmio, andato in direzione diametralmente opposta rispetto alle aspettative dei banchieri centrali. Questo ovviamente ha rallentato ulteriormente l’attività economica.
Per cui parliamo di bassa crescita, con aspettative improntate al pessimismo. In questo contesto, come si sono comportati i profitti aziendali e in che misura ciò è prezzato dalle quotazioni di mercato? Al solito, facciamo riferimento agli utili “GAAP”, che riflettono la profittabilità aziendale meglio degli utili operativi, i quali escludono componenti straordinarie. Secondo gli ultimi dati resi noti dalla Standard&Poor’s, relativi al 97% delle società quotate nell’S&P500, alla fine del secondo trimestre gli EPS vantano un’espansione di appena il 2% rispetto ad un anno fa. Questo dopo sei semestri di discesa consecutiva: ben più di una formale recessione dei profitti.