La borsa prezza la perfezione (II Parte)

- 15/03/2017
Come sanno i nostri lettori, siamo dell’avviso che un debito elevato sia un fattore frenante della crescita economica. Più volte abbiamo rilevato che otto anni di tassi di interesse prossimi allo zero hanno provocato una lievitazione artificiosa delle attività finanziarie. La Banca Centrale Europea e la Bank of Japan hanno replicato l’esperienza americana, facendo anche di più: promuovendo tassi di interesse negativi. La BoJ è arrivata a comprare azioni, gonfiando ulteriormente la bolla speculativa. Per non parlare della nuova superpotenza mondiale, la Cina, a sua volta in una bolla persino superiore per proporzioni a quelle occidentali. Sebbene Trump abbia accusato Pechino di manipolare il cambio, la realtà è opposta: difatti un cambio debole non farebbe altro che esacerbare i problemi, fra cui la fuga di capitali. Ecco perché la Cina cerca di rafforzare lo yen.
Alan Greenspan cerca di spiegare che stiamo passando dalla stagnazione alla stagflazione. Ad inizio ciclo, margini di profitto e borse crescono man mano che l’inflazione guadagna impeto. Ma non va avanti per molto, perché ad un certo punto subentra il problema di una crescita deludente della produttività. Man mano che la nostra nazione invecchia, non avremo l’afflusso di baby boomer che entrano nella forza lavoro, come occorso negli anni Ottanta e Novanta. Al contrario, queste persone comporteranno un peso crescente per il sistema sanitario e previdenziale. Questo vuol dire assorbimento di risparmio, che non sarà destinato ad investimenti produttivi. Sottoscriviamo questa tesi: i problemi resteranno fino a che non avremo altri lavoratori che entreranno nel circuito economico. Certo, i flussi migratori allenterebbero la pressione, ma porterebbero nuovi problemi.
Per ciò che concerne le valutazioni, la nostra misura preferita è il Price/Earnings calcolato con gli utili effettivi “GAAP”. Al 24 febbraio risulta che i profitti delle compagnie dello S&P500 ammontino a 96 dollari: corrisponde ad un P/E di 24.7 volte. Non crediamo che una crescita reale del 2% giustifichi tale sopravvalutazione. Le stime dell’agenzia Standard&Poor’s suggeriscono che nei prossimi due anni gli EPS cresceranno di poco meno del 17% all’anno: un’ipotesi generosa, a dir poco; ma anche se così fosse, il P/E convergerebbe a 18 volte gli utili. Sempre costoso, in prospettiva storica. E quand’anche così fosse, bisognerebbe concludere che tassi di interesse e inflazione siano destinati a salire: e dal momento che gli utili sarebbero capitalizzati con un tasso crescente, il problema per il mercato emergerebbe in tutta la sua evidenza.
In conclusione, la borsa sta vivendo in una bolla che le speranze e i sogni post-elettorali hanno soltanto malcelato. La maggiore crescita, auspicata abbattendo regolamentazioni e minori imposte, stride in confronto all’inflazione delle attività finanziarie resa possibile dalle politiche della Fed. Sotto questa prospettiva non ha alcuna importanza il nome del presidente degli Stati Uniti: debito e demografia agiscono a sfavore, e un bear market di proporzioni epiche cancellerà tutti questi eccessi.