Pianeta America
Sale il dollaro, salgono i tassi: non sarà troppo?

A Washington si starà guardando con una punta di compiacimento la buona prova di vitalità del dollaro, capace di staccare, nella prima metà dell’anno, una performance media ponderata del 4.2% che probabilmente dimostra che l’economia americana è sufficientemente forte da non abbisognare di una moneta debole che stimoli le esportazioni. Per lo stesso motivo la correlazione inversa fra dollaro e mercati azionari risulta ora rovesciata: fino a qualche mese fa le borse scendevano quando si registravano pulsioni deflazionistiche globali che facevano deprezzare le monete locali e di riflesso apprezzare il dollaro; ora, a quanto pare, biglietto verde e listini borsistici possono andare felicemente a braccetto. Evviva.
Sicuramente l’economia americana è più lontana ad una piena espansione che ad un’ipotesi remota di recessione, in termini di crescita percentuale del prodotto interno lordo. Tuttavia si da’ il caso che il recupero del dollaro da maggio in poi sia andato di pari passo con la crescita dei rendimenti e in generale del costo del denaro negli Stati Uniti. Anche in questo caso, si potrebbe argomentare, senza grossi timori di smentita, che il maggior livello dei rendimenti teoricamente riflette un miglior clima dell’economia: incoraggiati dall’espansione, famiglie ed imprese richiederebbero maggiore credito, inducendo le banche a smobilizzare gli investimenti di portafoglio (Treasury), e a tornare alla loro attività caratteristiche. Un assunto però tutto da dimostrare, nella pratica…
Quel che ci può preoccupare, è che l’azione combinata di tassi in aumento e di dollaro forte può minacciare l’abbozzata ripresa economica. Il grafico in basso quantifica in una scala da 0 a 100 l’entità di questa minaccia.

Il tentativo è quello di combinare numericamente l’impatto delle due variabili descritte. L’indicatore proposto in basso prende in esame i tassi di variazione percentuale annua del Dollar Index e dello yield dei Treasury decennali USA. Indi procede a normalizzazione, mediando infine i due dati. In linea di principio letture superiori al 70% denotano un contesto restrittivo (cambio “sopravvalutato” in termini medi ponderati, costo del denaro relativamente eccessivo), mentre rilevazioni inferiori al 10% evidenzierebbero condizioni stimolanti per il ciclo economico.
Soffermiamoci sulla prima eventualità. I casi più recenti, risalenti al decennio 1997-2006, sono comparati con il livello dell’ISM Index. Non occorre molto per rilevare come il barometro della attività manifatturiera abbia incominciato a soffrire di lì a breve. Il problema è che oggi, a differenza di allora, l’ISM si collochi già su livelli minacciosamente vicini alla soglia dei 50 punti.
Bisogna fare due precisazioni: la prima è che viviamo momenti eccezionali dal punto di vista monetario. I tassi ufficiali resteranno azzerati per diverso tempo: prima si assisterà alla progressiva riduzione fino ad eliminazione dell’espansione quantitativa della Fed; assente nel periodo citato. In secondo luogo, l’indicatore proposto ha ancora (poca) strada prima di entrare in area di teorico surriscaldamento.
Resta però l’evidenza empirica di un contesto non così benigno per la crescita economica ulteriore. Per cui o si immagina un raffreddamento del dollaro e/o dei tassi di interesse, o in questa seconda metà dell’anno testeremo la reale capacità dell’economia di affrontare il mare aperto senza remore.

Un operatore professionale da molti anni attivo sui principali mercati finanziari mondiali. Continua...