Come far ripartire la crescita economica

- 16/09/2013
Fra gli investitori non si parla d’altro: quattro anni e mezzo di rialzo dei mercati azionario sono argomento di nicchia, oltretutto doloroso da affrontare per chi si è occupato d’altro. Dopotutto, perché accettare il rischio dell’investimento in capitale di rischio, quando in questi anni era possibile conseguire succulente performance investendo sui bond emergenti?
L’indice “EMBI” calcolato da JP Morgan, che sintetizza l’andamento dei bond emergenti (durata media: 7 anni), è salito del 26% nel turbolento 2009, del 12% nel 2010, del 9.2% nel 2011 e del 18% lo scorso anno; e questo, senza considerare l’aspetto valutario, che peraltro è stato benigno fino a poco più di un paio d’anni fa. Poi, d’un tratto, una delle forme di investimento preferite da investitori e promotori finanziari, si è accartocciata.
«Colpa della Fed e del suo maledetto tapering», è il coro pressoché unanime. Si fa riferimento alla imminente decisione di ridimensionare lo stimolo monetario negli Stati Uniti, che comporterebbe di riflesso un ritorno dei capitali verso le economie occidentali, in uscita pertanto dalle aree del globo che fino ad ora hanno attirato gli investitori con i loro generosi rendimenti: se zio Sam è di braccino corto, e sui 7 anni offre poco più dell’1% annuo, perché non investire in bond del governo coreano (quello di Seoul, ovviamente), o sudafricano, o turco, o brasiliano? è stata l’argomentazione dominante di questi anni, naufragata con il famoso (o famigerato?) discorso dello scorso 22 maggio.
La verità è che i mercati emergenti perdono colpi da quasi tre anni. E, sistematicamente, si è data colpa di questo accartocciamento, ora a timori di locali fiammate inflazionistiche, ora alla crisi dell’Euro, ora alle ipotesi di hard landing in Cina; ed infine, al ventilato tapering negli Stati Uniti. La realtà, evidentemente, è un’altra.
Il problema è strutturale. Gli EM hanno smesso di fare ciò per cui sono usciti brillantemente dalla crisi di fine anni Novanta: produrre in quantità crescente a parità di ore lavoro (produttività), e aumentare il conteggio della popolazione mondiale con la loro allegra fertilità. Sono argomenti del passato: come evidenzia magistralmente il grafico di BCA Research che riproduciamo con il consenso della fonte, la produttività è in calo dal 2008, mentre la crescita della forza lavoro converge inesorabilmente verso il basso da molto tempo prima. Inevitabilmente, il tasso potenziale di crescita dell’economia ha assunto una pendenza discendente, con il tasso effettivo che vi si adegua inevitabilmente.
Lo ripetiamo. Nel lungo periodo il tasso di crescita potenziale dell’economia – di qualunque economia – dipende da due fattori: la variazione della forza lavoro (popolazione di età compresa fra 16 e 64 anni) e il tasso di crescita della produttività. Poiché la prima voce è legata a fattori demografici – possiamo impegnarci oggi ad accrescere la forza lavoro, ma le nostre procreazioni diventeranno braccia operose fra non meno di 16 anni – a meno di accettare un consistente flusso immigratorio l’unico modo per aumentare il tasso di crescita dell’economia è agire sulla produttività. Gli altri espedienti sono palliativi: gli EM hanno conosciuto un boom dal 2009 in poi grazie al massiccio stimolo fiscale in Cina, nonché al tasso zero in USA che ha spostato masse di liquidità in cerca di remunerazione verso le economie emergenti. Ma una volta esaurito l’effetto di questo stimolo, il tasso di crescita del PIL si è accartocciato su se’ stesso: il Brasile cresceva nel 2010 di quasi il 10% anno, oggi flirta con la recessione. Ed è in ottima compagnia.
Facciamo un esempio a noi più vicino? Bene.
Prendiamo gli Stati Uniti: il tasso di crescita della forza lavoro (in rosso, nel grafico) cala dalla fine degli anni Settanta. Questo aspetto strutturale, che non conosce tuttora soluzione di continuità, è stato nel tempo più che compensato dalla crescita della produttività (arancio), favorita dalle politiche economiche “supply side”, dall’avvento dei personal computer, e poi di Internet. Il dato in questione è salito dal 1983 alla metà dello scorso decennio, prima di convergere verso il basso.
La semplice somma di questi due fattori determina il tasso di crescita potenziale del PIL americano (in rosso scuro). Rispetto a questa traiettoria, il PIL effettivo, in termini reali, si è docilmente adeguato, ricalcandone fedelmente l’andamento fino al 2002, quando l’emersione di un corposo output gap ha scavato un solco fra crescita potenziale e crescita effettiva.
Uscendo dal gergo tecnico: l’economia americana era tarata per crescere del 4% annuo fino alla fine del 2007. Da allora la traiettoria potenziale è andata vistosamente ridimensionandosi, raggiungendo a metà 2013 il saggio annuale del 2.4%: è questo il massimo che l’economia USA può garantire, nel lungo periodo. Fare meglio è pressoché impossibile, salvo temporanee eccezioni.
Questo vale per gli Stati Uniti, vale per i paesi emergenti, vale per l’Europa, e vale per l’Italia. Non esistono scorciatoie, ne’ ricette facili per il benessere. Diffidare di impostori e venditori di fumo.