Usa e UE, separati in casa

- 08/09/2014
Stati Uniti ed Europa sono in economia sempre più Marte e Venere: i primi accelerano, la seconda rallenta. L’attività economica si rafforza Oltreoceano, rallenta minacciosamente nel Vecchio Continente. Così, mentre a Francoforte il povero Draghi è indotto a un taglietto dei tassi poco più che simbolico, non rilevando condizioni sufficienti a misure drastiche ed eccezionali, sull’altra sponda dell’Atlantico la signora Yellen si appresta ad ufficializzare la conclusione del programma di Quantitative Easing, e conta i (pochi) mesi che mancano all’uscita dalla politica di tassi di interessi prossimo allo zero: la cosiddetta ZIRP.
Allo stato attuale il mercato dei future sconta una probabilità del 15% che il tasso sui Fed funds sia innalzato in occasione della riunione del FOMC del 18 marzo; la probabilità sale al 28% a fine aprile 2015, e al 48% per giugno del prossimo anno: una data che sembra iniziare a raccogliere il consenso degli osservatori. Da qui ad un anno, la prospettiva che la Fed aumenti i tassi è prezzata all’84% di probabilità.
Nulla di simile si rileva in Europa, dove la prospettiva di aumentare i tassi ufficiali è data come concreta non prima del 2017; e sospettiamo che non pochi riconoscano il rischio di errare per difetto. Specie ora che la dinamica occupazionale mostra preoccupanti segnali di peggioramento: con un tasso di disoccupazione nell’area Euro a doppia cifra ormai da quasi quattro anni, e con un costo del lavoro per unità di prodotto che per i Diciotto converge verso lo zero, non ci si immagina nemmeno la prospettiva di un aumento del costo ufficiale del denaro in Europa.
Proprio il mercato del lavoro invece quasi invoca negli Stati Uniti una maggiore determinazione sul fronte monetario. Se prendiamo in considerazione le ultime quattro stagioni di aumento dei tassi ufficiali in USA, ci accorgiamo che a quest’ora il Fed funds rate avrebbe già dovuto distaccarsi da terra.
La figura in alto propone appunto il confronto fra il tasso ufficiale della politica monetaria americana (rosso, scala di sinistra) e la variazione annuale della paga oraria media nel settore privato (blue, scala di destra). La crescita delle retribuzioni è passata dal +1.3% di due anni fa, al recente +2.3%: ci si incomincia a chiedere se e in che misura questo aumento di salari e stipendi possa presto riflettersi in maggiore inflazione.
C’è un altro dato rilevante: poco prima il primo aumento dei tassi ufficiali (1987, 1994, 1999 e 2004), la variazione annuale delle retribuzioni risultava già in crescita: rispettivamente da 5, 17, 4 e ancora 4 mesi. Con una dinamica salariale in espansione ormai da quasi due mesi, non è che ci sia il pericolo che la Fed sia eccessivamente tollerante? Oltretutto tenendo conto che, rispetto all’inflazione, l’occupazione risulta una variabile lagging; ma, rispetto all’occupazione, sono i salari a risultare “ritardatari"...
Bisogna riconoscere che se l’inflazione fosse una reale e concreta minaccia, il mercato obbligazionario americano sarebbe precipitato. E invece i rendimenti restano compressi, sebbene conoscano naturalmente maggiore resistenza a calare, a differenza di quanto accade in Europa, dove maggiori sono le pressioni deflazionistiche. Ma anche di questo dovremmo parlare: l’allargamento dello spread di rendimento fra Stati Uniti e Germania ha raggiunto in questi giorni un livello estremamente rilevante. Avremo su questo aspetto, avremo modo di tornare prossimamente…